REPORTAGE. DA LUCERA A FAETO, DUE GIORNI DI TRANSUMANZA | Odysseo

2022-07-31 08:48:23 By : Mr. Lewis Feng

Alle spalle, la sabbiosa cimosa costiera del mare Adriatico, sonnolento oggi, persino svogliato. In ferie le sue biancheggianti onde che sovente sferzano la battigia col maestrale.  Afosa la giornata, il mercurio quasi in ebollizione lambisce i 40° gradi. Picco incredibile. Chissà come sarà preoccupato, consapevolmente, il meteorologo Mercalli per le sorti del Pianeta.

Automobile priva di aria condizionata, lamiere roventi, motore boccheggiante, finestrini spalancati. Folate di vento afoso. Due ore di viaggio, in strade deserte, un inferno!  Si crepa, ma non puoi, non devi assolutamente mancare al ghiotto appuntamento.

Finalmente Troia, 439 metri di altitudine, meta agognata fino allo spasimo. I polmoni ringraziano, la pelle smette di rovesciare secchi di sudore e la vettura si gode un po’ di frescura, dopo la cavalcata, all’ombra della villa comunale che ospita un boschetto di lecci.

Troia, “La città del rosone.” Un incanto, il fiore di pietra, la grande rosa che sovrasta col suo struggente splendore artistico la piazzetta antistante. Subitaneamente, per associazione di idee, si affaccia al balcone della tua mente la costruzione della “Cattedrale del mare” di Ildefonso Falcones. Conci calcarei, calcina e travi di legno traportati a spalla o a dorso di muli ed asini, turbinio di cavatori di pietra, scalpellini, muratori.

Bello, artisticamente, il tempio cristiano, congiuntamente, rivoli di sangue umano, sudore, sacrifici, sfruttamento. Succede adesso, figuriamoci allora! Alle condizioni disumane della povera gente nessuno pensa. Mai. Errata corrige, Gesù Cristo e… qualche emulo!

Brulichio di gente, turisti ed indigeni, telecamere e macchine fotografiche. Indaffaratissimo Antonio Tricarico, presidente del “Museo della civiltà contadina vivente” che, assieme ai fratelli Carrino, sponsorizzati dal Comune di Troia, ha organizzato l’evento. A lui fanno capo una trentina di soci della benemerita associazione, tutti con fazzoletto giallo paglierino annodato orgogliosamente alla gola.

Aurora, indaffaratissima, assieme ad altre donne del paese, è alle prese con il fondo di pagnotte di pane da insaporire ed addobbare con tocchetti di pomodori, falci di cipolle, spolverata di origano, fiume di olio d’oliva extravergine. Quello vero, che pizzica la gola! Le narici entrano in fibrillazione, pazienza!, arriverà il momento in cui i denti potranno affondare deliziosamente nella gustosa pietanza.

Più in là su un fornello gigante, un pentolone, pieno di latte pecorino appena munto, si lascia lambire dalle fiamme. Non appena la temperatura raggiunge i 38°, il fuoco si riposa, e il caglio, tuffandosi nel tiepido liquido proietta tutt’intorno, lungo le pareti interne, schizzi di latte, immacolati come la schiuma del mare.  Una manna per i dentini voraci dei fermenti, che si moltiplicano all’inverosimile.

Una rudimentale tenda di pastori presidia la piazza, mannelli di grano, avena ed orzo, sull’attenti, la scortano, mentre sul selciato, una batteria di misurini di latta ricorda i bei tempi in cui accoglievano amorevolmente latte, olio, farina. Da un piolo pendono, campanelli e campanacci che allietavano greggi ed armenti col l’inconfondibile verso metallico che si librava etereo nelle valli e fratte ubertose Ai suoi piedi sonnecchiano, sognando vecchi albori, scompigliate reti di canapa utilizzate per arredare gli iazzi, che durante la notte ospitavano gli animali, appena raccolti, contati, abbeverati.

Quante cose della civiltà agro-pastorale non sai, uomo della civiltà (?) industriale e digitale, ma provvede gentilmente, con entusiasmo, Nicola Di Girolamo, appena conosciuto, un cuore d’oro, un vuoto incolmabile la morte della moglie, ad assottigliare le copiose lacune.

Repentinamente…tutti gli sguardi saettano all’unisono l’imboccatura alla strada, leggermente in salita. Un gregge, settecento pecore, immagine di altri tempi! In testa al corteo Domenico Carrino, imponente nella sua stazza, piglio risoluto. Incedendo con aria regale, invita i pedoni a fare spazio al passaggio delle pecore e dei cani.

Affiora alla memoria, l’ultima transumanza realizzata prima del Covid, e s’impenna la tua frequenza cardiaca. In quell’occasione il gigante ti offrì spontaneamente la sua giacca impermeabile, perché ti riparassi dalla incessante pioggerellina. E lui rimase in maniche di camicia, indifferente ai rivoletti di pioggia che rigavano il viso e, formando piccole cascatelle, picchiettavano i suoi scarponi.

Agitando energicamente un campanaccio, il presidente della festa gli dà man forte.  Così, il corteo di pecore “gentili di Puglia” sfila veloce tra le due ali di folla, martellando rumorosamente il lastricato stradale. Un’esclamazione di meraviglia, un’ovazione. Brividi per la spalla, emozioni, palpitazioni, trasalimenti e sentimenti che riportano in qualche angolo dimenticato del tempo. Un minuto all’incirca, è come se echeggiasse nell’aria afosa una musica lenta e suggestiva suonata da forze della natura.

Terminato l’incanto, un codazzo di gente si unisce al gregge che ciondolando la testa, scortato da guardinghi cani pastori abruzzesi, continua imperterrito la sua marcia verso l’odierno traguardo. Sono proprio gentili, le pecore di Puglia, hanno avuto riguardo verso la Cattedrale. Il basolato di pietre stradali, infatti, è lindo, ma il servizio di igiene del Comune, provvede ugualmente al disinfestante lavaggio.

Come sulla battigia, parte il riflusso dell’onda umana di risacca verso la zona retrostante della piazza che ammira da secoli il rosone. Nutrito, il capannello di gente che si agglomera intorno al casaro Pietro Casoli, simpatia personificata. Tutto raccolto nel suo ruolo professionale, didatticamente espressivo. Le sue braccia smuovono, rimescolano, rivoltano l’impasto bianco, poi, quando la soda pasta bianca raggiunge il giusto grado di densità, con lo sguardo chiede l’intervento sollecito di fuscelle di plastica.

La prima, la seconda, la… sesta.  Esperte mani di volontari premono, rivoletti di siero scorrono lungo le feritoie, forme di formaggio fresco si materializzano, e le ghiandole salivari di molti astanti secernono a profusione saliva dolciastra. Si svuota, il grande pentolone, e il giallo siero rimasto ce la mette tutta per donare morbida ricotta. Oggi, poi, più che mai non vuole sfigurare.

Prende la parola Antonia Velluto, simpatiche fossette nell’affabile viso, erborista innamorata della sua professione che le elargisce caterve di soddisfazioni umane. Turisti e curiosi, avidi di sapere, sono tutt’orecchi. Un fiume in piena, la signora, ma deve contenersi, la gente è abituata al mordi e fuggi della vita contemporanea, alla buccia della vita.

Non facevano salti di gioia in tutte le case i molisani e gli abruzzesi, nel mese di settembre. Non ci si crogiolava. Le giornate erano brumose. Bisognava partire per il Tavoliere della Puglia. Là in montagna faceva già freddo, e gli animali soffrivano, si ammalavano, il cibo cominciava a scarseggiare. Fiocchi di neve imbiancavano i verdi pascoli e le fronde dei faggi. Gli uomini, che da anni ogni giorno accudivano gli animali, non potevano assistere indifferenti alla sorte che inclemente avrebbe atteso al varco le loro greggi, i loro armenti, se avessero ritardato la partenza di qualche giorno.

Le spose, di nascosto, piangevano, ma i loro occhi erano arrossati. Vedove bianche! I bambini piccoli non comprendevano quello che stava avvenendo, ma quelli più grandicelli, orfani per molti mesi, si intristivano al solo pensiero che, partendo i loro padri, avrebbero perso esperti compagni di giochi. Gli anziani genitori, già provati da una vita di fatiche e stenti, temevano che forse non avrebbero assistito al ritorno dei loro figliuoli dagli ubertosi pascoli della Puglia. Purtroppo, una necessità ineluttabile incombeva su tutti. Per sopravvivere, continuare a sognare un futuro meno asfissiante. Nonostante tutto.

Piccoli e grandi greggi, mandrie di varie dimensioni imboccavano il grande tratturo, spazio inerbato di un centinaio di metri, e poi si dividevano per le varie diramazioni, segmenti di una rete dalle fitte maglie che ricopriva la Puglia fino alle Murge.

Lungo il percorso, pascolando liberamente, quadrupedi e bipedi incontravano , fontanili, muretti a secco, cippi di pietra, stazzi, riposi, taverne, fortificazioni di vario tipo, cappelle, perfino palazzi costruiti grazie all’“industria armentizia”. Centinaia di chilometri, una decina i giorni di marcia.  Un esodo biblico. Ogni anno, dal tempo dei Sanniti e poi dei Romani fino al secolo scorso. Pericoli sempre in agguato.

La sera gli uomini, accompagnandosi con nodosi bastoni d’avellano piegati col fuoco dalle loro mani, riunendosi intorno a falò, consumavano miseri pasti e raccontavano vere storie di vita, ascoltati anche dalle lucciole e dalle falene, mentre le scintille invano tentavano di lambire il lontanissimo cielo stellato. Più tardi nei pagliericci, raggomitolati, fremevano di nostalgia al pensiero dei loro cari e si agitavano per gli incubi, sempre incombenti.

Molte vestigia prodotte nei secoli, già smantellate.  Un patrimonio etnografico di grande valore, in perenne disfacimento e degrado. Ma chi vuoi che si prenda cura delle cianfrusaglie storiche di un popolo umile e laborioso! Contano soprattutto, se non esclusivamente, le insaziabili esigenze di lusso, profitto, avidità ed ambizione dell’elite, della classe dirigente, che, per la verità, non sa orientare neppure sé stessa, anche in una società sedicente democratica! Oltremodo, sprezzante, sorda ai bisogni che vengono dal basso.

A Foggia, alla Dogana, venivano contati i capi di bestiame.  Non c’era nulla da pagare al momento, le tasche erano vuote. Al ritorno, nel mese di giugno, una grande fiera accoglieva i reduci. Con la vendita dei prodotti caseari e di alcuni capi di bestiame i migranti saldavano il conto con l’amministrazione che gestiva i rapporti con i proprietari delle terre e degli edifici che li avevano ospitati.

Una vita di stenti e di fatiche. Frustrazioni, ma sempre incollati all’etica del lavoro indefesso, dell’onestà, dei sacrifici e dell’amore per gli uomini, gli animali e la montagna. Sofferenze che dilaniavano le anime, oltre che i corpi. Uno stigma che raggiungeva persino le viscere, oltre che deprivare di palpiti di umanità. La miseria più nera. Un popolo messo da parte ed ignorato! Consapevolmente! Una calamità umana, politica, prima che naturale.

Il tuo caro amico Luciano, oggi nel fosco tunnel dell’Alzheimer, abruzzese di Torre Bruna, figlio di un fornaio, sì di un umile fornaio!, non di un umilissimo pastore, divenuto, solo Dio lo sa come, docente di attività motorie, ti raccontava che da bambino dovette fare trenta chilometri a piedi, scalzo, col suo papà annerito dal fumo della legna bruciata, su sterpaglie e sentieri rocciosi, per comprare un paio di scarpette.

Un abruzzese famoso, Gabriele D’Annunzio! L’intellettuale, l’uomo che sempre osava, fino a sorvolare Vienna, pieno territorio nemico, con una squadriglia di aerei.  Gaudente, amorale, amante della vita sfarzosa, di automobili lussuose, sovente inseguito dai debiti, guerrafondaio. Una vita all’insegna dell’estetismo, del superomismo, del sensismo. Lontanissimo dall’anima abruzzese. Una vita tortuosa e tormentata, che invoca, in fondo, pietà.

Era troppo preso dal mito di sé stesso, dalla costruzione del suo faraonico Vittoriale sul Garda per capire il dramma del suo popolo. Osò scrivere “Settembre, andiamo è tempo di emigrare”, lirica (?) studiata in tutte le scuole di ogni ordine e grado.  Che cosa può dipingere, lui, della transumanza? Stende macchie di colori, senza volume, prive di bilanciamento. La musicalità è posticcia, artefatta. Mancano emozioni e sentimenti, il sale della vita, latita una visione di ampio respiro, il senso dell’esistere. Una poesia, prima di tutto, ha bisogno dell’afflato dell’anima, non si regge solo con rime, endecasillabi e lemmi raffinati!

Il viaggio, da pascolo a pascolo, attraverso i tratturi, era occasione d’incontri, di scambi e scontri di due popoli, i montanari ed i pugliesi delle pianure. Si confrontavano culture, credenze, abitudini alimentari, psicologie. L’identità di tutti ne usciva cambiata, arricchita.

Persino sangue abruzzese e molisano si mescolava con quello pugliese. I Carrino, guarda un po’, sono discendenti di padri abruzzesi e madri pugliesi. Quando due aitanti pastori abruzzesi, i fratelli Felice e Domenico, misero piede ad Alberona, irresistibilmente conquistati dalla soave bellezza, dalla delicatezza dei modi e dalla instancabile laboriosità di Grazia e Lina, sorelle, nacquero famiglie ed un’azienda attenta ai valori della tradizione, della terra, degli animali e delle persone. Per loro i lavoratori e la terra sono sacri.  I mangimi, genuini.

“È sufficiente oggi, si chiede il Museo della transumanza vivente, “limitarsi a raccogliere attrezzi o oggetti che i pastori tradizionalmente utilizzavano per conservare la memoria di quell’epoca e dei protagonisti? O occorre anche valorizzare l’immenso patrimonio della civiltà della transumanza, abbracciando ogni aspetto legato a quella civiltà? Rimarrà solo il folclore o si scaverà più profondamente per comprendere le radici della storia attuale?

A giugno era festa in molte case. Il vino scorreva a litri. Mariti e mogli si riabbracciavano, genitori anziani piangevano di gioia, i neonati ed i figli più grandicelli ripetutamente, spupazzati, abbracciati e baciati. Non sembrava vero. Ne avevano di cose da raccontare, le donne, che avevano dovuto provvedere alla casa, all’orto, alle galline, ai conigli, ai bambini, agli anziani, ai disabili, e gli uomini, stanchi della lunga marcia reduci da tante peripezie. Non sarebbero da subito mancati momenti da vivere intensamente!

Per oggi, il sole tramonta e la notte incombe, una pausa corroborante. Ora le pecore brucano su un’ondeggiante distesa erbosa, guardate di soppiatto da due pastori venuti dalla Macedonia, perché gli italiani si rifiutano di svolgere un mestiere molto assorbente ed umile, il gradino più basso della scala sociale. Gli ovini hanno da riprendere energia. Una vasca riempita d’acqua da una cisterna, adagiata su un camioncino, calamita intorno a sé le assetate pecore che ordinatamente si dissetano.

Arrivano su un camion una ventina cani da guardia del gregge, pastori abruzzesi. Sono pacifici, ma guai a toccare una pecora. Con la loro collaborazione i Carrino possono dormire sonni tranquilli, nessun lupo si avventurerebbe tra gli animali, i cinghiali si terrebbero alla larga.

Intanto, mentre si impallidiscono i colori della coda di volpe, della lupinella, del tasso, dell’avena e diventa sempre più flebile il belato delle pecore, fervono i preparativi per la festa conviviale e si infoltisce sempre di più la nuvola di commensali che vogliono evocare l’esperienza del passato.

Si imbandiscono le mense, una cornucopia di profumi irrompe nell’aria sconquassando le narici degli amici della transumanza, i palati e la lingua assaporano manicaretti, formaggi, cacio cavalli, fettone di pane condito, ricotte, cocomeri e… ciliegie, distribuite da una ninfa, Maria Grazia, figlia di Domenico. Intanto, Loredana cugina dei tre fratelli Carrino, che di educazione e di didattica se ne intende, fa l’anfitriona del pranzo sociale, momento sacro di pura condivisione, gioia e socialità. Canti, balli, musica a gogo, nascono nuove amicizie ed anche amori. Non può mancare il vino di Troia che invita il rosso porpora a visitale le guance e riscaldare le membra, col calare dell’arietta frizzante. Fai amicizia, ti senti parte integrante della comunità. Alzi la testa al cielo e benedici i tanti doni.

Poi, alla spicciolata tutti vanno via, restano i Carrino a prendersi cura dei loro animali. Tu, desideroso di scavare più profondamente nel fenomeno della transumanza, dormi in macchina a due passi dal precario iazzo. Vorresti fare due passi per ammirare le miriadi di stelle punteggianti la volta celeste, ma prudentemente non esci dall’abitacolo, memore della raccomandazione del gigante Domenico “prudenza, i pastori abruzzesi stanno sempre all’erta, potrebbe essere pericoloso esplorare i dintorni.”

Una grande opportunità si dipana nella notte. Ininterrottamente, ad intermittenza si accendono le luci rosse delle pale eoliche, punti di brace baluginanti solcano veloci la nera cupola. Cerchi di connetterti con la tua più vera natura, a lungo bersagliata e soppressa dai vari ruoli e personaggi imposti sin dalla nascita dalla società. Cerchi di riscoprire la tua più vera essenza in tutta la sua potenza. Crei, perciò, dentro di te un’oasi di pace, entri in contatto con l’energia delle stelle, poni una mano sul cuore ed una sulla pancia per sentire il tuo respiro, ascolti il palpitare della grande Madre Terra, ti senti grato alla vita e a tutte le persone con cui ti relazioni. Ora potrai agire con maggiore decisione ed entusiasmo nella realtà quotidiana.

Arriva l’alba, il sole fa capolino. Distingui e riconosci gli alberi, le piante spontanee, le opere antropiche.  Si sveglia lo stazzo, gran fermento delle pecore che possono abbeverarsi sotto l’occhio vigile dei loro guardiani a quattro zampe. Esce dalla vettura, la moglie di Domenico che non ha lasciato solo il marito durante la notte.

Arriva da Lucera , Cristoforo Carrino con  due collaboratori, uomini, che si prenderanno cura delle pecore durante il soggiorno nei pascoli di Faeto. Telecamere e macchine da presa entrano in azione, fioccano interviste per soddisfare la curiosità della gente del territorio.

Si apre la recinzione e le pecore riprendono la marcia. Oggi, come ieri, devono percorrere una ventina di chilometri, lungo le vestigie degli antichi padri, facendo sosta quando la fame si fa sentire e succulenti pascoli diventano irresistibili.  Al traguardo, berranno profondamente alle fonti sorgive del subappennino dauno e riposeranno.

Due anni fa, prima dell’arrivo del Covid, macinasti molti chilometri sotto una persistente pioggerellina da Troia verso Lucera nella tenuta dei Carrino dove fosti ricevuto dalla bella famiglia patriarcale, come uno di loro. Dalla mamma Grazia, dalla zia Lina, dalla cugina Loredana, da Cristoforo, Gianfranco e Domenico, da consorti e nipoti presenti.  Persino dal quadro ingiallito dal tempo raffigurante il patriarca Felice a cavallo. Sfogliarono per te con orgoglio gli album delle fotografie familiari. Incantevoli le scene familiari e le stupende eredi. In quell’occasione una cagna partorì, e il veterinario della casa, Cristoforo, invitò gli astanti a non toccare l’animale prima che la mamma non lo avesse riconosciuto, annusato, leccato.

Ora, percorrendo la via del ritorno, culli il sogno di assaporare per alcune settimane la vita semplice degli umili, uomini, pecore e cani, per raccontare ai lettori la dura vita dei pastori. Per dipingerla nei quadri. Ed anche per recuperare personalmente un rapporto più sano e sincero con te e la natura nel suo complesso.

Anche io ero li…attraverso le tue parole.Ha vissuto una tradizione secolare,che fa parte di un mondo che non sembra più attuale. Capisco bene il mondo delle masserie e del bestiame,e di come si è sempre in apprensione di un eventuale malattia,o qualche ferita o rottura d’arto. Nel mio piccolo l’ho vissuto alla periferia di Barletta,con una stalla piena di equini. Alle narice cittadini l’odore del bestiame,quell’odore di stallatico lascia sempre scappare le stesse parole”Ma come puzzano”! Per chi è vissuto tra gli animali,quel odore vuol dire vita…e creatrice di nuova vita.Visto che il stallatico è un ottimo concime. Vedere il cielo stellato senza interferenza delle luci cittadine,fa ai più sensibili di noi,scattare una grande melanconia.Nulla di strano,perchè noi siamo figli delle stelle.Sentiamo il richiama di casa!!! Gradisco sempre i tuoi “inserti di storia e arte”…perchè non conosco i nomi delle chiese,e parlarmi di scrittori che io non leggero mai…mi è cmq utile,perchè conferma quello che dico da sempre.In Italia non serve andare in un museo…basta andare nel più piccolo borgo,dove troverai qualche chiesa o grotta con autentici tesori d’arte. Grazie per la tua cronaca Mimmo….

Buongiorno Domenico la tua descrizione delle cose,fatti,persone e luoghi è più che esaustiva,l’emozione che riesci a trasmettere è talmente forte da indurmi a provare quel che tu,con spirito indomito, ricerchi continuamente.

Come il pittore attinge con i colori sulla tela, così.. caro Domenico sei abile a colorare i tuoi versi..e a far brillare ogni singola parola… hai raccontato la transumanza con tanto ardore…tanto da far passare ogni tua emozione..

Bello il parallelismo con d’Annunzio..francamente non so perché questo si studi a scuola… Si evidenzia la ricchezza della vita semplice dei pastori fatta di sacrifici ma ricompensati alla fine del lavoro dove non possono mancare balli pranzi e unione solidale..complimenti professore!!*

Leggere il tuo articolo è come aprire una finestra su di un altro mondo. La bella e minuziosa descrizione della transumanza mi ha fatto rivivere, come se fossi fra di voi, un mestiere faticoso, antico ma ricco di umanità, valore che, nel mondo odierno, faccio fatica a riconoscere. Peppino

Maria Carissimo Domenico, il tuo è molto più di un reportage; hai descritto la transumanza con una cura fuori dall’ordinario, usando un lessico e una ricchezza di particolari che ne fanno un racconto avvincente. Sin dalla lettura delle prime righe sono stata rapita, e ho capito di trovarmi davanti a qualcosa di inedito e ormai raro. Il tuo racconto è bellissimo! Ha i tratti della poesia che nasce spontanea, come l’acqua che sgorga e zampilla dalle fenditure della roccia. Tu hai rivestito la tua esperienza di sacralità oblativa, restituendo ai lettori un mondo antico e raro, che ha tanto da insegnare all’umanità globalizzata. Mentre leggevo, sentivo di partecipare alla realtà che raccontavi. Infatti, ho guardato con i tuoi occhi e vissuto con i palpiti del tuo cuore ogni singolo passaggio. Il merito non è solo l’indiscussa maestria della tua penna, ma anche la sensibilità del tuo animo verso un mondo denso di vita e di insegnamenti che vanno custoditi e tramandati, affinché non si perdano nella perpetuazione della nostra società liquida. Il mondo che tu ci hai consegnato in questa pubblicazione è fatto di lacrime, sacrifici, lavoro, ma anche di fedeltà, cura, concretezza e saggezza. Inoltre, ha il sapore del tepore familiare che aleggiava nelle comunità rurali , quando tutti erano una sola famiglia e un solo destino. Grazie Domenico per la tua testimonianza, e grazie per la splendida persona che sei! Io ho un ricordo bellissimo delle ore passate a scuola con te e con tanti compagni. Sei sempre stata una persona vera, autentica, preparata, capace di far emergere negli alunni che ti venivano affidati l’amore per lo studio e la fiducia nelle loro capacità/possibilità. Hai sempre rispettato tutti i ragazzi e le loro famiglie, e non hai lasciato mai indietro nessuno. Per te, eravamo tutti importanti e unici! Sono felicissima di essere stata una tua alunna, ed è bellissimo ritrovarti dopo diversi anni e vedere che il tempo ha cambiato il colore dei tuoi capelli, ma non la tua anima bellissima e vivace!

Mi sono lasciata trasportare dall’incanto del reportage. Il racconto, che incarna la testimonianza diretta, profuma di emozioni che invadono l’animo e il cuore, accarezzando la mente. È stato come leggere un pentagramma dalla sublime melodia, ma scandito da un tempo particolare: il tempo della vita umile e semplice, vera e autentica. Il lessico ricercato, elegante e carico di vitalità favorisce il viaggio nella storia narrata, inducendo il lettore ad una profonda riflessione. Grazie Domenico.

Sono sempre molto suggestive le tue descrizioni della civiltà contadina. Un’infanzia del mondo che attraverso il tuo sguardo ritorna nel presente per interrogarci sul nuovo mondo, su quel vitale rapporto tra l’uomo e la natura che stiamo tragicamente perdendo. Condivido anche le acute riflessioni su D’Annunzio. Complimenti. Antonio

Una piacevolissima lettura,uno stile espressivo che evoca immagini ed emozioni bellissime. Raffaella

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